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DA ALKATRAZAZ - QUANDO DIVENTA OPPORTUNO ANDARE IN GIUDIZIO!
INTERESSANTE!.....Mooolto interessante!
Cass., 26 maggio 2005, sez. lav., n. 11092, pres. Mattone, rel. Toffoli - "AI FINI DEL PERIODO DI COMPORTO E' INAMMISSIBILE TENERE CONTO DELLE ASSENZE DOVUTE ALLA VIOLAZIONE DELL'ART. 2087 C. C." Con questa interessante sentenza, la Suprema Corte ha evidenziato che, nel caso in cui il lavoratore presenti infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto con il suo stato di salute, il datore di lavoro ha il dovere, ai sensi dell’art. 2087 c. c. e dell’art. 4, comma 5, lett. e) del d. lgs. n. 626 / 1994, di verificare tale compatibilità e di assumere gli eventuali provvedimenti conseguenti. Inoltre, è stato ribadito che le assenze per malattia, che siano valutabili come conseguenza dell'illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non possono rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto.E' opportuno premettere in linea di diritto che il datore di lavoro, una volta che sia emerso che il lavoratore, addetto a prestazioni di tipo manuale, presenta infermità che mettono in dubbio la compatibilità delle mansioni cui è addetto con il suo stato di salute, ha il dovere di verificare tale compatibilità e di assumere i provvedimenti conseguenti, a norma dell'art. 2087 c.c. e dell'art. 4,comma 5, lett. e) del d.lgs. n. 626/1994 (cfr. Cass. 22 aprile 1997 n. 3455, 2 agosto 2001 n 10574). L'eventuale impossibilità, sul piano organizzativo, di assegnare il lavoratore a mansioni compatibili con le specifiche infermità e limitazioni fisiche da cui il medesimo sia affetto non giustifica l'assegnazione a mansioni non compatibili. Salva rimanendo la possibilità del datore di lavoro di licenziare il lavoratore per giustificato motivo oggettivo, in caso di comprovata impossibilità di assegnazione dello stesso a mansioni compatibili (anche con deroga al divieto ad assegnazione a mansioni di livello inferiore: cfr. Cass., sez. un., 7 agosto 1998 n. 7755). Peraltro non è in discussione che le assenze per malattia, che siano valutabili come conseguenza dell'illegittima assegnazione del lavoratore a mansioni non compatibili con il suo stato di salute, non possano rilevare ai fini del superamento del periodo di comporto Cos’è il danno biologico?La giurisprudenza ha riconosciuto che qualunque danno alla salute comporta anche un danno in termini di ostacoli alla normale vita di relazione che, conseguentemente, risulta menomata. Questo è, in sintesi, il concetto del danno biologico, il cui risarcimento è ormai pacificamente ammesso. La nozione del danno biologico trova, nel rapporto di lavoro subordinato, importanti applicazioni: infatti, l'art. 2087 c.c. impone al datore di lavoro l'obbligo di tutelare l'integrità fisica e psichica del lavoratore. In altre parole, datore di lavoro non solo deve rispettare le norme anti-infortunistiche che disciplinano il lavoro prescrivendo specifici e adeguati mezzi di prevenzione e protezione. Oltre a ciò, il datore di lavoro deve prevenire i danni, tra l'altro, alla salute, adottando tutti gli strumenti resi disponibili dall'attuale stato della scienza e della tecnica, benchè non espressamente contemplati dalle norme anti - infortunistiche.Insomma, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento del danno biologico derivante da una menomazione fisica o psichica subita nell'espletamento della attività lavorativa. Più precisamente, il datore di lavoro è tenuto al risarcimento qualora il lavoratore possa dimostrare non solo di aver subito una lesione fisica o psichica, ma anche che la lesione è dovuta al lavoro e non ad una causa diversa. Da quest'ultimo punto di vista, si può aggiungere che, per esempio nel caso di sordità, o in caso di simili lesioni, la prova che il danno dipende dal lavoro può essere fornita anche mediante l'allegazione della rendita riconosciuta dall'Inail per invalidità professionale. A tale riguardo bisogna anche precisare che la rendita per invalidità non è alternativa, ma aggiuntiva al risarcimento del danno biologico. Se il lavoratore ha fornito le prove di cui si è parlato, il datore di lavoro potrà esimersi dal risarcimento dimostrando di aver rispettato non solo le norme anti - infortunistiche, ma anche l'art. 2087 c.c., quindi di aver utilizzato tutti i rimedi preventivi consentiti dall'attuale stato della scienza e della tecnica. Ma se il datore di lavoro fallisce questa prova, il lavoratore potrà ottenere il risarcimento del danno, normalmente commisurato al grado di invalidità corrispondente alla lesione subita. Di regola, questo accertamento viene effettuato mediante consulenza tecnica, affidata ad un medico legale, che provvede alla quantificazione della invalidità; sulla scorta di questa quantificazione, il giudice liquiderà in via equitativa il danno.Questione n. 2 E’ vero che il lavoratore può ottenere il risarcimento del danno biologico anche nel caso in cui la sua salute sia stata compromessa da un impegno eccessivo di lavoro? Una recente sentenza della Corte di Cassazione (n.8267/97) ha affermato che il datore di lavoro è responsabile, ai sensi dell’art.2087 c.c., nei confronti del lavoratore dipendente, nel caso in cui quest’ultimo abbia subito una compromissione della salute determinata da un impegno eccessivo sul lavoro, ricollegabile a un numero di dipendenti insufficiente. Secondo la Corte di Cassazione, la ricerca di livelli competitivi di produttività non può compromettere l’integrità psico-fisica del lavoratore; da questo principio viene fatto discendere il conseguente dovere dell’imprenditore di adottare tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore, compreso un organico adeguato al volume di produzione dell’azienda stessa.Anche se il dipendente accetta di lavorare troppo, svolgendo una consistente mole di lavoro straordinario, pur nei limiti fissati dalla contrattazione collettiva, ciò non esime il datore di lavoro dal dovere di limitare questo sforzo eccessivo. Le risorse umane insomma debbono essere sufficienti a consentire un impegno lavorativo non eccessivo e comunque non pregiudizievole alla salute; se necessario, al fine di evitare che l’usura fisica e psichica determini danni alla salute del dipendente, l’organico aziendale deve essere rivisto e adeguato a un impegno sopportabile per tutti i dipendenti.Anche se apparentemente eversivo, in termini di interferenza della Magistratura nella libertà d’impresa (art.41 Cost.) e quindi nella libertà dell’imprenditore di organizzare come meglio crede la propria azienda, il principio affermato dalla Cassazione non è altro se non un’applicazione concreta della norma contenuta nell’art.2087 c.c., secondo il quale "L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro". Non si deve pensare che, in questo modo, si lascia decidere ai giudici le dimensioni dell’organico aziendale; piuttosto, la sentenza sopra citata mette a fuoco il dovere dell’imprenditore di darsi una struttura tale da evitare che uno o più lavoratori dipendenti siano costretti a fornire un apporto lavorativo che possa determinare danni alla salute, a causa dell’impegno eccessivo. In questo senso, nessun organico aziendale può essere predeterminato da un soggetto terzo; è lo stesso imprenditore che è tenuto a verificare costantemente la congruità del suo organico, per ampliarlo nei casi in cui ciò risulti necessario per impedire la lesione di un bene riconosciuto fondamentale dalla Costituzione (art. 32), quale la salute dei lavoratori dipendenti.Il principio enunciato dalla Cassazione è ovviamente applicabile in ogni settore aziendale e in ogni tipo di mansione e funzione, e può dunque riguardare sia l’operaio che l’impiegato, sia il funzionario che il dirigente. Questione n. 3 Quali sono le tutele accordate dal legislatore alla salute del lavoratore sul posto di lavoro? Una recente sentenza della Corte di cassazione (n. 4721 del 9/5/98) consente di fare alcune precisazioni sulla questione. Nel caso in questione, la vedova di un lavoratore, impiegato in un ambiente lavorativo ove erano presenti polveri di amianto e deceduto per mesotelioma peritoneale, aveva convenuto in giudizio il datore di lavoro chiedendone la condanna al risarcimento del danno. La domanda era fondata sull’art. 2087 c.c., che prescrive l’obbligo, per il datore di lavoro, di tutelare l’integrità fisica e psichica del lavoratore. La società convenuta si era difesa sostenendo di aver adottato tutte le misure preventive e di sicurezza prescritte dalla normativa all’epoca vigente (luglio 1987). Pertanto, sia il Pretore che il Tribunale, constatato che la società non aveva ricevuto contestazioni per violazioni della normativa anti - infortunistica; constatato – tramite consulenza tecnica – che nell’ambiente di lavoro non vi era una concentrazione di fibre di amianto superiore al massimo consentito dalla legge all’epoca vigente, aveva rigettato la domanda presentato dalla erede del lavoratore. La sentenza del Tribunale è stata però annullata dalla Corte di cassazione. Infatti, è stato ritenuto che l’art. 2087 c.c. costituisce la norma di chiusura della la normativa anti – infortunistica. In altre parole, le norme anti – infortunistiche che pongono specifici divieti o obblighi nei confronti del datore di lavoro costituiscono semplicemente l’applicazione ad un caso particolare del principio generale, ricavabile appunto dall’art. 2087 c.c.. Pertanto, il datore di lavoro, nel caso in cui il lavoratore subisca un danno alla propria salute, non può andare indenne dal risarcimento solo per il fatto di aver adottato le prescrizioni specificamente imposte dalla legge. Oltre a queste prescrizioni, resta il generale obbligo sancito dal già citato art. 2087, che impone al datore di lavoro, indipendentemente dalle specifiche disposizioni anti – infortunistiche, di adottare tutte le cautele necessarie, secondo l’esperienza e la tecnica, a tutelare l’integrità fisica del dipendente. Pertanto, al di fuori degli eventi coperti dalla assicurazione obbligatoria, il datore di lavoro è responsabile dei danni derivanti da infortuni o malattie professionali, subiti da un suo dipendente a causa della nocività dell’ambiente di lavoro e in violazione dell’obbligo imposto dall’art. 2087 c.c../M# Questione 4 Il lavoratore può ottenere il risarcimento del danno biologico anche quando questo sia causato da un comportamento astrattamente lecito del suo datore di lavoro? Di regola, il risarcimento di ogni danno, ivi compreso quello biologico, presuppone la natura illecita del comportamento che l'ha cagionato. Tuttavia, la Cassazione, con la sentenza n. 475, pronunciata il 19/1/99, ha riconosciuto che, a determinate condizioni, anche un comportamento astrattamente lecito può essere fonte di risarcimento del danno. Più precisamente, la Corte ha affermato che le reiterate visite di controllo sul lavoratore assente per malattia, richieste dal datore di lavoro, possono configurare un comportamento persecutorio, con conseguente diritto del lavoratore al risarcimento dei danni subiti a causa di tale comportamento. Come è facile intuire, l'importanza della segnalata sentenza sta nel fatto che è stato riconosciuto il diritto al risarcimento in un caso in cui il danno era stato causato da un fatto in sé lecito.Più precisamente, un datore di lavoro aveva continuativamente chiesto il controllo sulla malattia di una lavoratrice che si era assentata dal lavoro per sindrome ansioso-depressiva. L'esercizio di questo diritto era tanto più vessatorio, se si pensa non solo alla sistematicità del controllo, ma anche al fatto che, puntualmente, il controllo si concludeva con la conferma della persistenza della malattia. Pertanto la lavoratrice, dopo essersi dimessa, si era rivolta al Giudice del lavoro, sostenendo che l'assillo delle quotidiane visite di controllo aveva aggravato e stabilizzato la sua malattia, chiedendo quindi il risarcimento dei danni subiti. Il Tribunale, in sede di appello, aveva riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro, condannandolo al risarcimento del danno biologico, del danno alla capacità lavorativa, del danno morale e del danno patrimoniale (quest'ultimo, sotto il profilo della perdita di guadagno conseguente alle dimissioni). La citata sentenza della Corte di cassazione ha sostanzialmente confermato tale sentenza, riconoscendo dunque che anche l'esercizio di un diritto, se avviene con modalità vessatorie, può cagionare un danno risarcibile. La pronuncia è tanto più importante se si pensa che nel nostro ordinamento, come si diceva, il presupposto per il risarcimento del danno è la natura illecita del fatto che lo ha cagionato. In altre parole, anche l'esercizio di un diritto può causare un danno; tuttavia, tale danno, proprio perché causato da un comportamento lecito, non può trovare risarcimento. Ebbene, nel caso esaminato dalla sentenza in questione, il comportamento del datore di lavoro non costituiva in sé, astrattamente considerato, un illecito, dal momento che egli ha sempre la facoltà di controllare, mediante gli organismi del sistema sanitario pubblico, l'effettivo stato di malattia del lavoratore. Tuttavia, talvolta un diritto può essere esercitato in maniera del tutto irragionevole e con finalità meramente vessatorie. Un esempio è fornito dal caso esaminato dalla pronuncia citata della suprema Corte, ma questo non è l'unico caso in cui l'esercizio di un diritto può costituire fonte di responsabilità per danni. Si pensi, per fare un altro esempio, al datore di lavoro che perseguita il proprio dipendente sommergendolo di sanzioni disciplinari che, benché rientranti nell'astratto potere disciplinare del datore di lavoro, per la loro sistematicità e per la loro pretestuosità potrebbero configurarsi appunto come persecutorie e vessatorie. Anche in un caso come questo, dunque, il dipendente che abbia subito un danno potrà rivolgersi al Giudice del lavoro per ottenere il risarcimento.
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